Analisi/ Uscire dalla crisi da sinistra declinando il paradigma del riformismo

emilio russoHaxel Honneth, il direttore del mitico Institut fuer Sozialforschung di Francoforte, nel giugno di due anni fa, scriveva: «… era probabilmente dalla fine della Seconda guerra mondiale che non si registrava un’indignazione popolare di tale entità, alimentata dalle dinamiche sociali e politiche innescate dalle dinamiche sociali e politiche della globalizzazione dell’economia di mercato del capitalismo…. però, questa indignazione di massa sembra priva di ogni tipo di orientamento normativo e di ogni forma di sensibilità storica perché la critica avanzata possa ancorarsi a un qualche obbiettivo…». [L’idea di socialismo, Feltrinelli, Milano 2016].

Di fronte a un’ondata di contestazioni – archiviate per lo più come “populiste” – e alle loro inquietanti ricadute sugli equilibri politici che si stanno determinando in Occidente, sono possibili diversi atteggiamenti. Il primo è, ovviamente, quello di sminuire la portata dei sommovimenti in atto, pensando magari che sia possibile sconfiggere le forze che ne sono l’espressione politica attraverso forzature istituzionali e alchimie politiche con cui ricompattare le diverse componenti dell’establishment in un “fronte” in grado di bloccare l’avanzata dei nuovi “barbari”. La seconda linea di comportamento, a volte complementare alla precedente, è quella che consiste nel tentare di raccogliere alcune delle “ragioni” della protesta interpretando una versione soft del “populismo”, atteggiandosi a paladini della battaglia contro “la casta”, “i politici”, “i partiti” ecc., senza mettere in discussione gli assetti economici e sociali e quindi le origini autentiche della stessa crisi della democrazia. Entrambe queste posizioni sono state obbiettivamente compresenti, per esempio, nel modo in cui il Pd di Renzi ha affrontato la congiuntura attraverso le “riforme” della Costituzione e del sistema elettorale e ha impostato la campagna referendaria. Entrambi gli schemi escludono che il campo del centro-sinistra sia in grado di avanzare una risposta diversa di tipo strutturale. Negano anzi che ciò sia possibile. Utilizzo l’espressione centro-sinistra per rendere chiaro che, a mio parere, l’elaborazione di una piattaforma alternativa, insieme, alla deriva della globalizzazione e allo smottamento dei principi della democrazia politica, e alla risposta “populista” (anche in questo caso, sarà necessaria qualche precisazione), possa coincidere con un ripiegamento di tipo classicamente “massimalista”, con il semplice recupero di categorie analitiche del passato e con la rassegnazione a un destino minoritario.

Infine, esiste una terza possibilità: quella di pensare una risposta che consenta l’uscita dalla crisi “da sinistra”. E, per quanto mi riguarda, che sia possibile declinare il paradigma del riformismo nelle condizioni attuali. Si tratta di una ipotesi che richiederebbe di tentare in via preliminare un passaggio complesso: misurarsi con la convinzione diffusa che i processi socio-economici oggi siano troppo opachi e complicati per essere passibili di interventi mirati. Ciò implicherebbe la necessità di porsi il problema di quella che lo stesso Honneth definisce come “una concezione dei rapporti sociali feticista”, per cui “le persone considerano le condizioni sociali della vita comune solo come rapporti ‘reificati’, ovvero quali circostanze sottratte a ogni intervento umano”.

Il punto centrale del dibattito aperto nel Pd, al netto dei personalismi e delle diverse sottolineature, riguarda esattamente questo. La rappresentazione che la grande stampa e la stessa discussione interna spesso offrono, in questo senso, è riduttiva e, a volte, persino parodistica. A meno di non voler operare una pazzesca rimozione della profondità dei sommovimenti in atto nelle opinioni pubbliche e negli orientamenti del ceto politico a livello planetario, o di volersi chiudere in una testarda difesa dell’esistente, è evidente che il tema è quello di recuperare il ritardo rispetto alle dinamiche in atto attraverso un radicale riposizionamento della cultura progressista. Gli argomenti utilizzati in questi giorni contro le ragioni dell’opposizione interna e la possibilità stessa di una scissione del Pd fanno persino sorridere. Per qualcuno, si tratterebbe della dimostrazione che la sinistra è strutturalmente votata a coltivare pulsioni scissionistiche, a replicare all’infinito il proprio spirito minoritario, a respingere ogni prospettiva di insediarsi saldamente nelle posizioni di governo. Per altri, quello che si sta manifestando sarebbe un semplice riflusso nel passato, vissuto come un atto liberatorio rispetto all’egemonia culturale delle componenti moderate e “realiste” del Pd. O addirittura l’epifania dell’errore della fusione a freddo tra tradizioni politiche diverse che non sono mai riuscite a convivere come tali o a dare vita a una comune cultura politica. O, più semplicemente, il rifiuto di accettare la leadership di un ex democristiano in un partito che continua a raccogliere in prevalenza i voti del “popolo della sinistra”.

In realtà, è possibile che nella reciproca insofferenza siano presenti anche aspetti contingenti e frustrazioni maturate – al centro come nelle periferie – a causa della pochezza culturale dei gruppi dirigenti e dell’occupazione manu militari dei ruoli istituzionali, realizzata e minacciata dalla maggioranza renziana. Per non parlare dell’insistenza con cui, anche di fronte alle ripetute sconfitte, alle elezioni amministrative e al referendum, si continua a declinare, anche nella scelta dei candidati alle prossime elezioni dei sindaci, il paradigma del “partito della nazione”.

Poi ci sono le uscite sconcertanti di commentatori e attori politici che fanno finta di non capire: ma come, minacciate addirittura una scissione per un contrasto sull’agenda congressuale e sulla data delle elezioni politiche? Fingendo di non capire che la tempistica decisa nella Direzione del Pd ha esattamente il significato di negare l’essenza del problema: discutere su come ricollocare il centro-sinistra italiano di fronte alla crisi politica, evitando di ripetere gli errori fatali e la passività che rischiano di sancire la “scissione silenziosa” delle coscienze e degli elettori e di aprire la strada a un’affermazione, culturale e politica, del populismo. Ma “populismo” è una definizione del tutto inadeguata: da un lato perché presume di stigmatizzare in modo liquidatorio e con disprezzo il disagio reale presente nella società; dall’altro, soprattutto, perché esprime l’incapacità di comprendere che l’interprete della contestazione dell’establishment non è più un vago “movimento” di protesta ma una nuova destra sovranista, protezionista, ostile ai principi dell’inclusione e tendenzialmente aggressiva, che costituisce un campo strutturato e minaccioso, da Trump alla May, a Marine Le Pen. Altro che la Raggi.

Vogliamo discutere di questo, e tentare di creare un nuovo senso comune condiviso, non solo e non tanto nel Pd ma nella maggioranza degli italiani, o pensiamo davvero invece che quello che serve è una conta realizzata in tempi sincopati per tentare di restituire una fragile e rancorosa “legittimazione” a Matteo Renzi? Non è forse questo il vero “spirito di scissione”, e non è forse questa la catastrofe politica annunciata del centrosinistra? Gli argomenti dell’oltranzismo filo-renziano possono essere facilmente rovesciati.

Quello che sorprende, nel dibattito in corso, è il fraintendimento dell’espressione “riformismo”. Nella dialettica della sinistra dell’ultimo trentennio, l’intransigenza della cultura riformista – per quanto a volte fragile nei suoi presupposti teorici – ha svolto un ruolo di fondamentale importanza, contribuendo a battere le spinte radicali e a fornire al centrosinistra argomenti e piattaforme che hanno consentito di compiere importanti esperienze di governo. Soprattutto ha dato alimento alle elaborazioni che hanno consentito la nascita del Pd (un partito in cui avrebbero dovuto incontrarsi e fondersi le diverse componenti del riformismo socialista, laico e cattolico). Non comprendere quali siano oggi i termini – aspri e persino drammatici – del quadro attuale, e pensare che la cultura riformista possa essere riassunta nelle sacre rappresentazioni del nulla messe in scena alla Leopolda, rischia di fare di questa componente, che è stata per lungo tempo innovativa e anticipatrice, la scheggia di un conservatorismo che continua a pensare il mondo, l’Europa e l’Italia come se fossimo ancora lì a tentare di rialzarci dalle macerie di qualche Muro. [Emilio Russo per ecoinformazioni]

 

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